Il caso:
A distanza di tre anni dal matrimonio Tizio e Mevia, coniugi in regime di comunione legale, edificavano, ciascuno con il proprio patrimonio proveniente dall’attività lavorativa esercitata da prima del matrimonio, un immobile adibito a casa familiare su un suolo unicamente ereditato da Tizio.
Nel febbraio 2013, intervenuta la separazione di fatto tra i due, a seguito della quale Mevia si trasferiva presso la residenza del suo nuovo partner, Tizio conseguiva il possesso esclusivo dell’immobile suddetto.
A seguito di ciò, intenzionato ad impedire a Mevia di accedere all’immobile, Tizio provvedeva a cedere in favore di un terzo metà del detto immobile, tramite stipula di regolare contratto preliminare di vendita ritualmente trascritto.
Con istanza del 21/09/2013 Mevia invitava in mediazione Tizio affermando il proprio diritto di proprietà sull’immobile de quo a suo dire ricadente in comunione legale nonché l’invalidità del contratto preliminare concluso da Tizio unilateralmente senza il suo preventivo consenso, oltre al rimborso delle somme in parte prelevate dal patrimonio comune in parte corrisposte dalla stessa a titolo personale per la realizzazione di detto edificio.
Fallito il tentativo di mediazione Mevia si rivolge al suo legale di fiducia al fine di valutare l’opportunità di un eventuale giudizio.
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La prima questione di diritto che si rivela controversa riguarda la effettiva titolarità dell’immobile, già adibito a casa familiare, edificato dai coniugi Tizio e Mevia, i quali hanno contribuito ognuno con il proprio patrimonio personale, e che sorge su un suolo di esclusiva proprietà di Tizio.
Per sciogliere questo nodo occorre indagare sulla diversa rilevanza giuridica, all’interno dell’ordinamento, dei due elementi di diritto in apparente conflitto tra loro: la comune contribuzione alla edificazione dell’immobile e l’esclusività della proprietà del suolo edificatorio. Punto di partenza ottimale dell’analisi è la norma contenuta nell’art. 934 del codice civile che, regolamentando l’istituto dell’accessione legale, dispone letteralmente che “qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo“.
Tale norma non è altro che la diretta promanazione storica del principio espresso dal noto brocardo latino “superficies solo cedit”.
La titolarità dell’immobile spetterebbe, così, a Tizio, il quale l’avrebbe acquistata per accessione ai sensi dell’art. 934 del codice civile essendo l’unico proprietario del suolo sul quale è stata realizzata la costruzione. E’ d’uopo a questo punto appurare se il principio normativo appena esposto subisce una qualche deroga nel caso in cui un altro soggetto partecipi alle spese di edificazione. Nell’art. 934 c.c. il legislatore ha inserito delle deroghe espresse tassative, accordando la prevalenza su detta norma alle disposizioni contenute negli artt. 935, 936, 937 e 938 del codice e a quanto è diversamente disposto dal titolo o dalla legge.
E’ da escludersi a priori che possano trovare ingresso in questa sede le disposizioni normative di cui ai quattro articoli del codice appena menzionati, poiché essi esprimono un temperamento al principio dell’accessione che si giustifica soltanto se si verificano determinate circostanze di fatto che consistono, ad esempio, nell’impiego di materiale altrui per la costruzione o nella edificazione da parte di un terzo ecc.; circostanze che non ricorrono nel caso di specie. Non è, altresì, da ritenere esistente alcuna deroga convenzionale contenuta nel titolo di proprietà del suolo di Tizio (nulla è stato dedotto circa patti di costituzione di diritti di superficie in favore di terzi o altre convenzioni simili).
Si è detto che l’elemento apparentemente in conflitto con l’istituto dell’accessione è rappresentato dalla compartecipazione alle spese di costruzione dell’edificio da parte dei coniugi in regime di comunione legale. L’articolo 177 del codice civile sancisce che, oltre agli altri beni, sono oggetto di comunione legale tra coniugi gli acquisti compiuti dai coniugi durante il matrimonio. Nessun elemento nella lettera della norma, seppure indiziario, disvela l’esistenza di alcuna disposizione idonea a derogare l’applicazione dell’accessione legale. La Suprema Corte è ormai allineata sull’orientamento interpretativo della norma che ammetterebbe l’inderogabilità dell’art. 934 c.c. da parte delle norme sulla comunione legale tra coniugi.
Con sentenza n. 20508 del 2010, ha stabilito che “il principio generale dell’accessione posto dall’art. 934 c.c. non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra in coniugi in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177, I co., c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione.” (si vedano anche Cass. Civ. n. 8662 del 2008; Cass. Civ. n. 4716 del 1999; Cass. S.U. n. 651 del 1996; Cass.Civ n. 6222 del 1992).
Per questi motivi, nessun dubbio sussiste in ordine alla titolarità di Tizio dell’immobile oggetto dell’odierna contesa ed essendo egli e solo egli stesso l’unico soggetto giuridico in grado di poter esercitare legittimamente la signoria sulla cosa, deve ritenersi legittimo ogni atto di disposizione su di essa nei limiti delle facoltà riconosciutegli dall’ordinamento. Non esula, evidentemente, da dette legittime facoltà la costituzione in capo a sé dell’obbligo di cedere una porzione di immobile attraverso la stipula di un contratto preliminare con un terzo.
Sul terreno dei diritti reali la posizione giuridica di Mevia resta, dunque, irrimediabilmente sprovvista di tutela dal momento che la proprietà dell’edificio non ricade nella comunione legale. Il legislatore, tuttavia, ha predisposto una valida valvola di sfogo che offre una tutela di natura squisitamente obbligatoria, mediante la configurazione dell’istituto del pagamento dell’indebito oggettivo secondo l’articolo 2033 del codice civile.
La stessa giurisprudenza di legittimità che ha interpretato il combinato disposto degli artt. 934 e 177 c.c nel senso dell’inderogabilità dell’accessione, è concorde nel ritenere applicabile la norma di cui all’art. 2033 c.c. alle fattispecie di questo tipo: così da un lato il coniuge che non si è giovato dell’accessione ha diritto alla restituzione delle somme di denaro proprie impiegate nella edificazione, dall’altro il coniuge proprietario è gravato dell’obbligo di restituire alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune occorse anch’esse alla costruzione del manufatto.
Lo scopo della norma in esame è quello di tutelare chi ha fatto un pagamento non dovuto il quale ha diritto a ripetere ciò che ha pagato. Per pagamento non dovuto deve intendersi ogni pagamento effettuato in forza di un rapporto obbligatorio inesistente (ritenuto, ad esempio, esistente per errore) o divenuto inesistente. La norma di cui all’art. 2033 c.c., in effetti, pur essendo stata formulata con riferimento all’ipotesi di pagamento non dovuto ab origine, è applicabile in via analogica anche a quei casi in cui l’indebito oggettivo è sopravvenuto perchè è venuta meno la causa debendi, per qualsiasi ragione, in un momento successivo al pagamento (si veda, ex plurimis, Cass. S.U. n.5624 del 2009).
Nel caso che ci occupa è lapalissiano che solo e soltanto il legame di convivenza tra i coniugi possa aver determinato, in passato, la comune partecipazione alle spese di costruzione dell’edificio; ed è altrettanto palese che, una volta cessata la convivenza, per la sopravvenuta separazione di fatto dei coniugi, è inevitabilmente cessata anche la causa negoziale di tali pagamenti, ancorché già effettuati.
E’, pertanto, configurabile la sussistenza in capo a Mevia del diritto alla restituzione delle somme di denaro effettivamente impiegate, salvo provarle in giudizio. Nella domanda di ripetizione dell’indebito oggettivo, infatti, l’onere della prova grava sul creditore istante, il quale è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa; e, dunque, sia l’avvenuto pagamento, sia la mancanza di una causa che lo giustifichi o il venir meno di questa, sia l’imputazione dei pagamenti a quel rapporto e non ad altri. Punto, quest’ultimo, sul quale non si pone alcun problema probatorio, poiché è una pacifica evidenza che le spese per la costruzione dell’edificio furono finalizzate alla costituzione di una consona vita familiare all’interno di esso; tanto basta per configurare il nesso eziologico tra i pagamenti e la causa debendi (Mevia, altresì, nulla sarebbe tenuta a provare in giudizio circa il venir meno della causa debendi, essendo la circostanza della separazione di fatto già di per sé idonea a provare la sua inesistenza sopravvenuta).
Deve, pertanto, concludersi per la proponibilità della domanda giudiziale da parte di Mevia, che abbia esclusivamente ad oggetto la restituzione da parte di Tizio delle somme da essa versate a titolo personale, oltre alla ricostruzione del patrimonio comune con le somme da esso prelevate per la costruzione dell’edificio un tempo adibito a casa coniugale.